Il Covid-19 può “attaccare” il sistema nervoso o comunque causare complicanze non solo polmonari?  Soprattutto: quali influenze negative può avere la quarantena forzata a livello neurologico? Ci sono aree della popolazione più “fragili” e maggiormente a rischio da questo punto di vista? Si dice che il timore dell’infezione abbia causato una notevole diminuzione di pazienti che si rivolgono al pronto soccorso e agli ambulatori medici, anche se in qualche occasione la loro situazione clinica richiederebbe un intervento indipensabile? Parliamo di questi temi con Fabio Bandini.(nella foto) da oltre dieci anni direttore della Struttura Complessa di Neurologia dell’Ospedale San Paolo di Savona e specialista con ambulatorio in Montallegro.

Problemi neurologici e Covid-19

Secondo alcune informazioni il contagio da CoVID-19, oltre a colpire i polmoni, potrebbe anche avere un impatto sul sistema nervoso. Si tratta di affermazioni degne di fede e scientifiche? Se sì: quali sono i rischi?

«Da ciò che abbiamo appreso durante la sindrome respiratoria acuta grave (SARS) e la sindrome respiratoria medio orientale (MERS) e, purtroppo, in modo ancora molto parziale, durante l’attuale pandemia CoVID-19 (o SARS-COV2), sappiamo – anche se le cose cambiano ogni giorno – che la componente neurologica non rappresenta il problema principale di questo tipo di infezioni. Detto questo, poiché in corso di SARS e MERS si sono verificate rare, ma significative, complicanze neurologiche, possiamo aspettarci qualcosa di simile anche con CoVID-19. È necessario precisare, tuttavia, che qualsiasi infezione grave (in grado, per esempio, di causare setticemia, disfunzione d’organo multipla (MOF) o coagulazione intravascolare disseminata), aumenta in modo critico il rischio di sviluppare quelle che possiamo definire ‘complicanze neurologiche indirette’: per esempio, sono già stati segnalati casi di pazienti con CoVID-19 e disturbi cerebrovascolari, come ictus ischemici o emorragici, che hanno un rapporto direttamente proporzionale alla gravità della malattia infettiva. In generale, infatti, le complicanze neurologiche descritte sinora, principalmente in Cina, sono nettamente più frequenti nei pazienti più gravi».

Quali sono, in questi casi, le manifestazioni neurologiche più frequenti?

«Le manifestazioni neurologiche più frequenti, invero piuttosto aspecifiche, sono rappresentate da alterazioni dello stato di coscienza (15% dei casi gravi), cefalea e vertigini (circa il 20% dei casi). Un altro evento segnalato discretamente comune è un non meglio definito “danno del muscolo scheletrico” (con valori di enzima CPK > 200 UI/mL). Più recentemente si è notato che la perdita del senso dell’olfatto e/o del gusto potrebbe essere un indizio, soprattutto iniziale, di CoVID-19 e i neurologi (insieme agli ORL) possono essere i primi specialisti a evidenziarlo durante l’anamnesi o la visita. Questa possibilità potrebbe essere estremamente utile nell’ambito di uno screening intensificato per tentare di ridurre il rischio di trasmissione della malattia da parte di casi paucisintomatici (come, per esempio, persone che lamentino esclusivamente disturbi dell’olfatto e/o del gusto)».

E complicanze specifiche per chi è stato infettato?

«Per le complicanze neurologiche specifiche nel corso di CoVID-19, dobbiamo ancora rifarci a SARS e MERS. In queste due infezioni i problemi neurologici erano rari, ma sono state segnalate alcune gravi patologie quali l’Encefalite Acuta Disseminata Demielinizzante (ADEM), le encefaliti e le encefaliti del tronco encefalico. Nella CoVID-19 sono stati anche segnalati disturbi del Sistema Nervoso Periferico, quali la sindrome di Guillain-Barré (alcuni casi anche in Italia) o la polineuropatia da malattia critica. La questione principale è se il virus è in grado di infettare direttamente il Sistema Nervoso. Di nuovo, sappiamo da MERS e SARS che l’infezione diretta del sistema nervoso da parte del virus è un evento molto raro. Sappiamo anche che altri coronavirus non umani possono essere neurotropici, ossia hanno la tendenza a localizzarsi nel Sistema Nervoso Centrale. Sarà importante valutare se, in caso di manifestazioni specifiche neurologiche in corso di CoVID-19, esse siano effettivamente attribuibili a danno diretto del virus, rilevando l’acido nucleico virale nel liquor cerebrospinale mediante PCR (la stessa tecnica usata per i tamponi faringei). Il sospetto tuttavia, almeno per il momento, è che l’alterazione dello stato mentale e gli altri sintomi neurologici riscontrati sinora siano molto più probabilmente secondari al grave stato tossi-infettivo generale piuttosto che all’azione diretta del virus».

Il sistema nervoso e la quarantena

La quarantena può influenzare negativamente chiunque, ma potrebbe avere un’incidenza maggiore su particolari popolazioni più fragili. Quali sono queste popolazioni? Quali sono le criticità che si possono riscontrare?

«Non c’è dubbio che la quarantena, spesso in ambienti non adatti a una prolungata permanenza, accompagnata dal timore di contrarre una malattia infettiva così contagiosa e dalla improvvisa sensazione di precarietà e di incertezza sul futuro, può compromettere la salute fisica, ma soprattutto psicologica, delle persone costrette a casa. Non è solo il buon senso a suggerirlo, ma è anche il risultato di uno studio effettuato su 369 persone, in 64 città cinesi, pubblicato sulla rivista Psychiatry Research. Dallo studio è emerso che nei soggetti in ‘lockdown’ il livello di salute psicofisica si è considerevolmente ridotto. I soggetti più a rischio sono gli adulti con pregressi problemi di salute (ad esempio malattie croniche come le cardiopatie e il diabete), le persone con disabilità di qualunque tipo, i pazienti oncologici, le donne in gravidanza e coloro che hanno dovuto smettere di lavorare come conseguenza del lockdown. Quest’ultimo aspetto non deve sorprendere perché il lavoro, anche se routinario, aiuta le persone a trovare un senso alla propria vita».

Quali sono i sintomi più evidenti?

«È intuitivo che le persone più fragili psicologicamente siano quelle sulle quali il micidiale cocktail “quarantena” e “malattia infettiva contagiosa” può esercitare le influenze più negative. Di fatto, secondo i dati forniti su ‘The Lancet’ da parte dei ricercatori del Department of Psychological Medicine del King’s College di Londra, circa il 40% delle persone soffre di sintomi correlati all’isolamento come cefalea persistente, disturbi di concentrazione e attenzione, sensazioni di frustrazione e rabbia, noia, ansia, insonnia e depressione. Notevole è l’aumento di incidenza del disturbo da attacco di panico. Altro effetto collaterale comune è la fatica correlata allo stress: essa consiste in uno stato di stanchezza quasi costante che si sviluppa nel tempo e riduce energia, motivazione e concentrazione e, anche se di notte si dorme a sufficienza, la fatica può farci sentire stanchi e privi di motivazione al mattino».

E la paura dell’infezione come incide?

«Alcuni studi provenienti dalla Cina indicano che il timore di contrarre il CoVID-19, insieme all’isolamento e al distanziamento sociale, rappresentano la ‘tempesta perfetta’ in grado di produrre un aumento del rischio di suicidio o di altre gravi anomalie comportamentali, come abuso di alcol, violenza domestica e mancato rispetto delle direttive per la salute pubblica. Alcune delle sequele psicologiche della quarantena (es. panico, depressione, irritabilità, insonnia) possono poi persistere anche dopo la sua fine, soprattutto in caso di isolamento prolungato. Il rischio di esiti psicosociali negativi è più alto per chi ha contratto la malattia, chi è ad alto rischio di infezione (es. anziani) e chi soffriva già di problemi psichiatrici o dipendenza da sostanze».

Come si può intervenire?

«Per cercare di evitare o di limitare tutto ciò è necessario non solo supportare le persone sul piano psicologico (anche attraverso colloqui telefonici o videochiamate con psicologi e psicoterapeuti) ed eventualmente impiegare i farmaci adatti da parte degli specialisti, ma, soprattutto, stimolare il recupero, facendo uso, per esempio, delle tecnologie per mitigare l’impatto del distanziamento. Estremamente importante, inoltre, è che fin da subito vengano fornite indicazioni il più precise possibili, poiché l’incertezza non fa altro che aumentare l’inquietudine».

Quarantena e persone più fragili

La quasi assoluta cancellazione delle attività sociali può avere un’influenza negativa, anche neurologica, su alcune fasce della popolazione, in particolare quella più anziana?

«Se per le persone cosiddette “normali” lo stare forzatamente a casa ha provocato disagi significativi, soprattutto psicologici, per il mondo della disabilità il lockdown sta mettendo a dura prova la resilienza delle famiglie che si ritrovano sempre più sole a dovere fronteggiare le difficoltà quotidiane. La tempesta scatenata dall’emergenza sanitaria che ha investito il nostro Paese ha infatti reso ancora più precari i servizi sanitari e sociosanitari dedicati che presentavano lacune già in condizioni di ‘normalità».

E sulle persone anziane?

«Le persone anziane, in particolare se affette da disturbi cognitivi come la malattia di Alzheimer, sono quelle per le quali il distanziamento sociale e il lockdown rappresentano l’antitesi degli interventi necessari per migliorare la loro qualità di vita e quella delle loro famiglie. Le giornate di queste persone, prima della chiusura dei servizi, erano strutturate con una certa routine e in compagnia di volti ben definiti (come, ad esempio, i badanti). Tali certezze sono improvvisamente venute a mancare. La chiusura, inoltre, dei luoghi di assistenza sanitaria e sociale, come gli ambulatori medici, i caffè Alzheimer e i centri diurni, ha fatto sì che l’accudimento degli anziani, in particolare quelli affetti da demenza, gravi interamente, 24 ore su 24, sette giorni su sette, sui familiari. Le giornate di questi pazienti, sempre più “deprivate di stimoli”, provocano un rischio concreto di esacerbazione dei deficit cognitivi e dei disturbi comportamentali, quali ansia, aggressività verbale e/o fisica, sconvolgimento del ritmo sonno-veglia».

Cosa si può fare?

«In questa situazione forzata, si possono suggerire ai familiari alcuni consigli pratici per i propri anziani. Per esempio, cercare di mantenere i normali ritmi sonno-veglia, conservando le abitudini giornaliere, dall’ora del risveglio, alla colazione, al pranzo all’igiene personale e all’abbigliamento. Utile anche approfittare delle tecnologie oggi disponibili come le videochiamate per contattare amici e parenti, oppure fare attività motoria (semplici esercizi) durante la giornata, come brevi passeggiate intorno al palazzo o sul terrazzo. Se possibile, inoltre, sarebbe opportuno coinvolgere gli anziani pazienti nei vari impegni domestici come cucinare, apparecchiare, riordinare».

Chi sta male non deve temere l’ospedale

Il fatto che gli ospedali siano stati costretti a puntare sulle cure anti-CoVID, limitando forzatamente l’attività rivolta alle altre patologie, sta creando problemi?

«Questo è un aspetto estremamente preoccupante, che sta purtroppo emergendo in questi mesi. Chi ha un’emergenza medica, come l’infarto miocardico o, nel caso del neurologo, l’ictus cerebrale è restio a rivolgersi al 118 per paura del contagio in ospedale. A confermare questa tendenza vi sono studi sia della Società Italiana di Cardiologia sia della Società Italiana di Neurologia che hanno registrato una riduzione di oltre il 50% dei ricoveri per tali patologie rispetto allo stesso periodo del 2019. Tale riduzione si è verificata per i quadri clinici meno eclatanti, ma è stata notata anche in pazienti con forme più gravi di ictus o di infarto. Oltre a ciò, le persone che si sono recate in ospedale per queste patologie, per le quali il fattore tempestività è fondamentale (noto è il detto “Time is brain”), lo hanno fatto tardivamente, rendendo meno efficaci o addirittura impossibili alcune terapie salva-vita. Questo andamento dei ricoveri e degli accessi al Pronto Soccorso non presenta sostanziali differenze tra Nord e Sud, nonostante il diverso impatto che il CoVID-19 ha avuto sinora nelle diverse regioni italiane».

E per quanto riguarda la sua specialità, la Neurologia?

«Per quanto riguarda la Neurologia, si sono drasticamente ridotti anche gli accessi in Pronto Soccorso e i ricoveri per altri tipi di patologie, quali i traumi cranici, le cefalee, le crisi epilettiche. Le motivazioni di questa drastica riduzione dei ricoveri sono ancora in fase di analisi, ma, sicuramente, la paura dei pazienti di ricoverarsi in ospedale e di contrarre il Covid-19 gioca un ruolo fondamentale. Se il non recarsi in Pronto Soccorso per patologie banali può essere sicuramente considerato un segno di maggiore coscienza civile, soprattutto in un momento come questo, non altrettanto può dirsi per patologie gravi e potenzialmente mortali come l’ictus cerebrale. È completamente sbagliato ritenere che l’ictus o l’infarto siano meno gravi del CoVID-19 e non bisogna assolutamente abbassare la guardia. Anche in corso di pandemia è necessario non sottovalutare i sintomi, come ad esempio una perdita di forza improvvisa agli arti di un lato del corpo, oppure una difficoltà acuta nell’esprimersi, che potrebbero facilmente essere la spia di un problema cerebrale acuto e rivolgersi subito al 118, perché il ritardo nella diagnosi e nel trattamento dell’ictus aumentano la mortalità e la disabilità. I pazienti non devono avere paura perché negli ospedali ci sono percorsi differenziati dove i pazienti non si incrociano e possono, ognuno di essi, ricevere tempestivamente le cure necessarie».

Il problema si registra anche a livello ambulatoriale…

«Oltre al problema emergenze non-CoVID-19, si sta anche verificando un blocco quasi totale delle attività ambulatoriali. Se tale provvedimento è necessario per ridurre in modo significativo il rischio di contagio soprattutto per i pazienti più fragili, da un altro punto di vista rappresenta un altro grande problema perché, sfortunatamente, le malattie ‘regolari’ non scompaiono durante una pandemia. Il problema è riuscire a trovare un modo per fornire assistenza ai nostri pazienti senza costringerli a esporre potenzialmente se stessi o gli operatori sanitari all’infezione. Tutti noi siamo ovviamente a disposizione per visite urgenti o, comunque, non troppo procrastinabili, ma è innegabile, come praticamente accade in ogni centro di cui sono a conoscenza, che le visite e gli esami ambulatoriali non urgenti abbiano subito un drastico rallentamento. Chiaramente questo si ripercuoterà sulle liste di attesa quando sarà possibile riprendere le attività ambulatoriali. Queste ultime, inoltre, non potranno più essere gestite come veniva fatto prima della pandemia, con ambulatori affollati e lunghe attese: sarà necessario approntare nuove metodiche e nuovi aspetti organizzativi per poter visitare con sicurezza i nostri pazienti».

La foto di apertura è di Gerd Altmann da Pixabay.

Scritto da:

Mario Bottaro

Giornalista.