– Perché ha scelto la specializzazione in anestesia e rianimazione che, tra l’altro, comporta un lavoro in un ospedale con limiti per la libera professione?

«Scelsi la specialità l’estate del primo anno di Medicina quando ancora non avevo le idee chiare ma sognavo di fare il medico. Tutto accadde durante una lezione facoltativa sulle manovre del BLS (Basic Life Support). Ci diedero appuntamento nel tardo pomeriggio in un’accaldata auletta/ripostiglio di un seminterrato del DIMI, presenti una mezza dozzina sui 180 iscritti al corso di laurea. Passato almeno due volte abbondantemente il canonico quarto d’ora accademico, si presentò una cardiologa che con fare scocciato ci liquidava poiché l’anestesista che doveva illustrarci le manovre era impegnato in un’urgenza. Timidamente manifestai la richiesta di non perdere il pomeriggio e chiesi alla cardiologa presente di portare a termine la lezione. Rispose che non era compito suo, la incalzai dicendo che trattandosi di manovre Cardio-Polmonari meglio di un Cardio-logo non potevamo capitare meglio, risata collettiva e sguardo assassino da parte della docente. La dottoressa aggiunse stizzita che non erano manovre che la riguardassero e che doveva essere l’anestesista a mostrarle in quanto il più titolato. L’aula si svuotò e in un battibaleno iniziai a cercare le competenze del medico anestesista, fu passione a prima vista».

– L’anestesista è paragonabile a un mediano che “tiene assieme” la squadra permettendo al chirurgo-bomber di andare in rete? O anche l’anestesista spesso diventa bomber?

«Un mio maestro era solito dire questa frase: “Un buon chirurgo si merita un bravo anestesista, un chirurgo ha bisogno di un ottimo anestesista!”».

– Quale è l’elemento fondamentale nel rapporto tra anestesista a paziente?

«I due elementi per me imprescindibili sono quelli validi per tutti i medici ovvero l’umiltà e l’intenzione di aiutare».

– Ogni anestesista tende a specializzarsi su tecniche particolari. Per esempio le moderne tecniche che consentono la gestione del dolore dopo un intervento chirugico. Lei quali predilige e perché?

«Negli anni mi sono appassionato di anestesia locoregionale, mi affascinava eliminare la componente dolorosa negli interventi sia durante sia dopo chirurgia, quindi mi sono cimentato nei blocchi antalgici e tutto ciò che ne consegue».

– Un aneddoto che riassuma la sua esperienza professionale.

«Più che un aneddoto uno slogan nato da una domanda di mio figlio quando aveva circa 4 anni; il quesito fu questo: “Papà tu sei il più forte del mondo?” E io: “Mattia, papà con una siringa in mano non lo batte nessuno”».

– Alcuni pazienti temono di “svegliarsi” durante l’intervento chirurgico: è possibile? Come si evita questo rischio?

«Quando ero adolescente mio nonno era solito dirmi  che tutto in medicina era possibile tranne che l’uomo partorisse. Ma poi aggiungeva anche… per ora! Quindi non mi sento di dire che sia impossibile, ma posso dichiarare che si trattava di un’evenienza che poteva capitare in passato. Oggigiorno abbiamo sistemi di monitoraggio che lasciano poco al caso».

– Lei ha un passato in strutture pubbliche, ma ha scelto di entrare in una casa di cura privata. Quale è il progetto che l’ha convinta a fare questo passo?

«Non essere uno dei tanti ”operai” della sanità che si affaccendano per aiutare il prossimo senza che gli sia permesso dai propri superiori di instaurare un rapporto di fiducia con il paziente che nel privato spesso ti cerca anziché trovartici. Ecco vorrei fare la differenza per il paziente».

– A Montallegro il gruppo di anestesisti è considerato un elemento di qualità e di riconoscibilità. Lei come vive questa esperienza?

«È bello far parte di un team, certo ognuno di noi ha le sue peculiarità, ma siamo uniti per il bene dei pazienti e di Montallegro che ci ha donato la meritata dignità professionale».

La scheda di Luca Cevasco.

Qui il filmato dell’intervista doppia Alberto Cecchini-Luca Cevasco.

 

Scritto da:

Mario Bottaro

Giornalista.