È il racconto dell’Italia migliore che riscatta l’Italia peggiore, quella che ha saputo rialzarsi dal crollo del Ponte Morandi per costruire in tempi record il nuovo Ponte San Giorgio. È la storia di migliaia di lavoratori, italiani e no, che si intreccia con quella di Genova. “I mille del ponte” è lo spettacolo teatrale scritto dal giornalista Massimiliano Lussana, affidato alla regia di Alessio Pizzech e impreziosito dalle musiche di Mario Incudine. È in scena fino al 5 febbraio al Teatro Modena e merita di non essere perso. Prossimi spettacoli giovedì 2 e sabato 4 alle 19.30, venerdì 3 alle 20.30, domenica 5 alle ore 16. Info e biglietti su: www.teatronazionalegenova.it/spettacolo/i-mille-del-ponte.

– Lussana, come definiresti I mille del ponte?
«Tecnicamente è uno spettacolo epico nella forma del “Teatro Canzone”, perché il racconto è intervallato da canzoni che fanno da contrappunto al testo e cuciono le varie scene. È un racconto “a stazioni”, dell’Italia migliore, che si è saputa riscattare dopo aver toccato il punto più basso per un paese civile, perché un ponte non può crollare per l’incuria».

– Come è nato lo spettacolo?
«Il primo tassello è stato un articolo che mi chiese Pietrangelo Buttafuoco per la rivista “Civiltà delle macchine”, in cui raccontai la storia dell’operaio che aveva girato l’ultimo bullone del nuovo ponte San Giorgio. Il secondo step è stato un libro fotografico edito da Fondazione Ansaldo che, nell’ultima sezione, accompagnava le foto con lunghe didascalie. Alcune di queste sono parte integrante dello spettacolo, alle quali ho aggiunto molte altre storie, per un affresco che non celebra solo i lavoratori, ma si amplia ad altre figure e riflessioni».

– Per esempio?
«Racconto la straordinaria storia dei 56 notai che per evitare lo sfratto degli sfollati di via Fillak e via Porro hanno prodotto quasi 600 atti in 10 giorni. Ma c’è anche la storia di Genova, delle sue delegazioni da Voltri a Nervi. La parte che più mi ha divertito scrivere, e poi vedere in scena, è dedicata al ponte sullo stretto di Messina. Il ponte che non si fa, contraltare perfetto del ponte di San Giorgio, simbolo dell’immobilismo che attanaglia l’Italia e in particolare il Meridione. Mentre la parta più emozionante è il lungo finale incentrato sui lavoratori, sulle note di una canzone celebre come “La storia siamo noi”. L’ultimo viso che compare è quello di un grande fotografo e cameraman, Paolo Micai, portato via nel 2020 dal Covid. Il suo ultimo lavoro è stato proprio fotografare e filmare i lavori di costruzione del nuovo ponte. Mi ha fatto piacere fino alla commozione ritrovare alla prima sua figlia Giulia e la moglie Marina».

– Cosa racconta questa vicenda di Genova e dei genovesi?
«Io che genovese non sono, ma che in 20 anni mi sono genovesizzato, vedo una città molto spesso egoista, dove il massimo che si spera è che vada male al vicino piuttosto che bene a se stessi. Ma Genova è anche una città che di fronte a un dramma sa compattarsi in silenzio e che senza fare passerelle o mostrare il petto, ritrova il senso di comunità per mostrare la parte migliore, rimboccandosi le maniche. È successo tante volte in passato, lo abbiamo toccato con mano con la ricostruzione del ponte».

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