Gian Paolo Bezante, dirigente medico dell’Unità Operativa Clinica di Malattie dell’apparato cardiovascolare dell’IRCCS Ospedale Policlinico San Martino di Genova e consulente del Servizio di Cardiologia di Montallegro, ci accompagna in un racconto che intreccia la sua professione, il vissuto privato e le motivazioni che lo hanno guidato nella carriera medica.

– Dottor Bezante, c’è stato un evento o una persona che l’ha ispirata nella scelta di diventare medico?
«Ho avuto un papà medico e uno zio pediatra, professore universitario; quindi, nelle riunioni di famiglia, si è sempre parlato di medicina. In realtà, la scelta definitiva è stata influenzata dagli studi durante il liceo scientifico e, probabilmente, da una tendenza a voler aiutare il prossimo. La professione medica, in fondo, presuppone sempre un intervento in favore di chi soffre e ha bisogno di essere curato».

– Come è arrivato a specializzarsi in cardiologia?
«La scelta non è stata casuale. Credo che l’aspetto più importante della mia carriera sia stato l’aver intrapreso un percorso formativo che non si è mai interrotto, proseguendo anche, dopo la prima specialità in cardiologia, con una seconda in radiodiagnostica. La prima volta che mi sono confrontato con la medicina pratica, come si usava allora, è stato in una sala di anatomia settoria. La prima prova era vedere come reagivi di fronte a un cadavere. L’impatto iniziale è stato impegnativo, non tanto per la vista, quanto per l’idea di “aggredire” un corpo umano. Forse anche per questo mi sono sempre dedicato a tecniche cliniche e di diagnostica per immagini.
Ho iniziato a frequentare la corsia di Semeiotica medica, al terzo anno, con il compianto professor Alessandro Polleri, a cui devo tantissimo. A furia di “sberlotti” sulla nuca, ho imparato ad apprezzare l’esame obiettivo, i toni cardiaci, i soffi. All’epoca non c’erano ecografie, si usava il poligrafo, il vettorcardiogramma. Dal quarto anno ho iniziato a frequentare come studente interno la Cattedra di Malattie dell’apparato cardiovascolare, con il professor Caponnetto: è da lì è iniziato il mio percorso. All’inizio degli anni 2000, con l’evoluzione della cardio TC e della risonanza magnetica cardiaca, ho deciso di prendere la seconda specialità in radiodiagnostica per capire a fondo il funzionamento di questi strumenti. Oggi, la radiologia applicata alla cardiologia è una delle branche con i maggiori margini di sviluppo».

– C’è un episodio particolarmente emozionante della sua carriera che ricorda con piacere?
«Sì, un momento di grande emozione è stato nel 2005, quando sono stato nominato fellow dell’American College of Cardiology. Essere lì, alla cerimonia, insieme a cardiologi di fama mondiale, e ricevere quell’attestato è stato un momento molto significativo per me».

– Che consiglio darebbe a un giovane che vuole intraprendere la sua specialità?
«Un consiglio che vale sempre: cercare di scegliere un percorso per cui si prova un vero interesse. Il cammino del medico non si ferma alla laurea o alla specialità, ma continua per tutta la vita. Trovare spunti che motivano a studiare e ad aggiornarsi permette di svolgere una professione che chiede grandi sacrifici, soprattutto familiari. Quando fai i turni di sabato, domenica o durante le festività, la famiglia passa in secondo piano. Avere una profonda soddisfazione interiore per ciò che si fa è la spinta per andare avanti».

– Se potesse cambiare qualcosa nell’attuale sistema sanitario italiano, da dove partirebbe?
«Il problema del sistema sanitario nazionale, a mio avviso, non è tanto legato alle competenze professionali, quanto a una carenza strutturale di base che riguarda tutta la pubblica amministrazione: il supporto informatico. Se un paziente si sottopone ad accertamenti in un struttura e pochi giorni dopo viene ricoverato in un’altra struttura a pochi chilometri di distanza, deve ripetere tutto perché i sanitari non hanno modo di accedere agli esami precedenti. Questo vale per le analisi del sangue come per la diagnostica per immagini. Se queste risorse fossero organizzate in modo strutturale, avremmo un risparmio enorme e una drastica riduzione dei tempi di attesa».

– Togliamo il camice. Quali sono i suoi hobby?
«Ho sempre praticato diversi sport. Uno dei miei primi hobby era la moto, con cui ho girato un po’ l’Europa. Purtroppo nel 1994, l’anno in cui è nata mia figlia Beatrice, un incidente mi ha sbriciolato tibia, perone e astragalo. Ho dovuto interrompere calcio, calcetto e tennis e ho iniziato una carriera golfistica, con alti e bassi legati al tempo a disposizione. Spero, quando andrò in pensione, di avere più tempo per migliorare.

– Nel frattempo, il golf è diventata una grande passione.
«Dal 2020 partecipiamo anche a una sorta di Ryder Cup tra l’American College of Cardiology e la Società Europea di Cardiologia. È un evento che ci permette di girare il mondo e confrontarci, un appuntamento che è sopravvissuto anche al Covid».

– Come si riesce a mantenere un equilibrio tra una professione così totalizzante e la vita privata?
«Purtroppo questo segreto non ce l’ho. Anni fa mi sono separato: quindi devo dire che proprio non ho la formula magica. Anzi, spero che qualcuno un giorno possa essere in grado di trasmettermela».

– Infine, qual è il suo legame con Montallegro?
«Svolgere la libera professione in Liguria per chi lavora nel pubblico è complesso, perché il sistema è molto rigido, a partire dagli orari. Da qui è nata la collaborazione con Montallegro, che permette di sviluppare l’attività nel rispetto delle regole ma con la flessibilità necessaria. Il rapporto con Francesco Berti Riboli si è consolidato nel tempo; è un imprenditore lungimirante che valorizza la capacità professionale dei suoi consulenti. Devo ringraziarlo per la fiducia che mi ha concesso circa 20 anni fa: spero di aver dimostrato di essere stato all’altezza delle sue aspettative».