Le complicanze trombo-emboliche in chirurgia sono frequenti, soprattutto in alcuni distretti corporei, e non sempre sono chiare le linee guida per una corretta profilassi, anche tra gli addetti ai lavori. Questo è stato discusso in TSV 70 nell’ultimo incontro di formazione organizzato da Montallegro, che ha visto Vanessa Agostini, direttrice del Dipartimento di Diagnostica di Laboratorio dell’IRCSS Ospedale Policlinico San Martino e Coordinatrice del Dipartimento Interaziendale di Medicina Trasfusionale – DIAR Regione Liguria, di fronte a una vasta platea.

Gli episodi trombo-embolici possono colpire chiunque, senza distinzione di età o sesso. Si stima che ogni anno negli USA ne siano colpiti fino a 900.000 persone, con una recidiva entro 10 anni del 33%. Circa 1 decesso su 10 in ospedale è correlato a coaguli di sangue nei polmoni e fino a 100.000 persone negli USA muoiono ogni anno a causa di coaguli di sangue, con un costo sanitario associato pari a 10 miliardi di dollari.

«Sono numeri rilevanti che possono e devono essere contenuti attraverso una corretta profilassi, che deve partire dall’identificazione del rischio tromboembolico nel paziente e dal rischio emorragico legato alla procedura chirurgica. È preferibile un approccio multidisciplinare, quindi una scelta condivisa tra specialisti di settore, nelle scelte pre e post-operatorie: dalla profilassi primaria del metabolismo venoso, alla gestione perioperatoria dei farmaci anticoagulanti orali che sono usati per la profilassi secondaria, a come il chirurgo possa gestire i farmaci anticoagulanti orali in interventi chirurgici d’elezione, ma anche in interventi chirurgici di urgenza», ha spiegato Vanessa Agostini.

Non tutti gli interventi chirurgici comportano gli stessi rischi di complicanze trombo-emboliche. «Interventi di chirurgia ortopedica maggiore e di chirurgia oncologica hanno maggiore necessità di profilassi trombo-embolica. Per esempio, in campo ortopedico, una protesi d’anca elettiva senza profilassi farmacologica può comportare complicanze fino al 50% dei pazienti. Mentre la chirurgia oncologica rappresenta una grossa fetta di interventi chirurgici a rischio, perché il paziente stesso è predisposto a sviluppare eventi di tipo tromboembolico. Sono molti i fattori che devono essere presi in considerazione, stratificando il rischio individuale al rischio chirurgico: siamo sempre più spostati verso una medicina personalizzata».

Anche se esistono linee guida internazionali a cui attenersi. «Le più recenti sono quelle della Società Europea di Cardiologia, ma anche della Società Internazionale di Ematologia. Ci sono linee guida di settore in ambito di chirurgia toracica, ortopedica e ginecologica, e c’è una rilevante linea guida che è quella dell’American College of Physicians, che dal 2012 pubblica aggiornamenti in Italia in tale ambito».

Gli altri interventi

L’intervento di Vanessa Agostini è stato preceduto da un inquadramento di Giovanni Mancuso, specialista in Anestesiologia e Rianimazione del team interno di Villa Montallegro, che ha ribadito l’approccio personalizzato, nel contesto di linee guida definite.

«Lo score di valutazione del paziente ci restituisce un valore numerico che indica il rischio, che deve essere rapportato al tipo di chirurgia a cui il paziente deve sottoporsi. È necessario valutare caso per caso il rapporto rischio/beneficio della sospensione, modifica o implicazione della terapia con altri farmaci. A Montallegro seguiamo gli score adottati a livello internazionale, oltre alle linee guida europee».

Gian Paolo Bezante, dirigente U.O. Cardiologia dell’IRCSS Ospedale Policlinico San Martino ha invece fatto il punto sugli interventi di chirurgia non cardiaca a cui possono andare incontro soggetti cardiopatici sottoposti routinariamente a terapie antiaggraganti e anticoagulanti.

«Questi pazienti hanno bisogno di avere ben chiaro quando interrompere la terapia in atto prima dell’intervento. È inoltre utile per l’equipe chirurgica anestesiologica conoscere come gestire la fase del pre-intervento, le ore successive e i giorni seguenti. La Società Europea di Cardiologia negli ultimi anni ha sviluppato linee guida che hanno chiarito l’impatto delle nuove terapie. I pazienti che sono stati sottoposti a rivascolarizzazione coronarica o hanno avuto in passato eventi coronarici acuti devono preferibilmente, ove possibile, effettuare un intervento di chirurgia non cardiaca in sola terapia aggregante, ossia con un solo antiaggregante piastrinico. Mentre i pazienti affetti da aritmie cardiache maggiori e in terapia con anticoagulanti – soprattutto i nuovi anticoagulanti non vitamina K-dipendenti – in caso di intervento chirurgico devono sospendere precocemente la terapia, sostanzialmente rinunciando al bridge con le eparine a basso peso molecolare».

Federico Santolini, direttore U.O. Complessa di Ortopedia e Traumatologia d’urgenza dell’IRCSS Ospedale Policlinico San Martino, ha puntato l’attenzione sulla divergenza delle linee guida.

«Le raccomandazioni americane ed europee sono molto diverse tra loro e in alcuni ambiti la letteratura è piuttosto scarna, come nel caso delle fratture. Quando e come fare profilassi tromboembolica? Certamente in caso di interventi al ginocchio e all’anca, mentre nel caso di chirurgia ortopedica agli arti superiori non è necessario fare profilassi se l’intervento dura meno di 90 minuti, al pari della chirurgia ortopedica artroscopica».

Giovanni Camerini, professore di chirurgia generale UniGe, ha focalizzato l’attenzione sulla profilassi nella chirurgia video laparoscopica e robotica.
Per queste procedure infatti l’equipe deve considerare anche un ulteriore fattore di rischio rappresentato dall’aumento della pressione endoaddominale dovuto al pneumoperitoneo (per insufflazione di CO2) che contribuisce al rallentamento del ritorno venoso dagli arti inferiori.

Un’altra considerazione importante riguarda il timing della profilassi, ovvero l’opportunità di attivare precocemente l’inizio della somministrazione dei farmaci antitrombotici: immediatamente dopo l’intervento o entro le 6/8 ore. Non ci sarebbero evidenze di aumento del rischio tromboembolico, sottoponendo il paziente a profilassi anche più tardiva nell’arco temporale soprariportato. Per contro sembrerebbe ridotto il rischio emorragico.

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