Le forme del destino: arte, scienza ed epigenetica, secondo Arianna Carossa
Il progetto DESTINY, sostenuto anche da Villa Montallegro, ha portato le opere dell'artista genovese Arianna Carossa all'interno dei laboratori dell'Institut Pasteur di Parigi
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Unire arte e scienza in un progetto espositivo non è una novità assoluta. Farlo installando opere d’arte contemporanea all’interno dei laboratori di uno degli istituti di ricerca più prestigiosi e inaccessibili al mondo, invece, è un’operazione quasi senza precedenti. È stata questa la sfida del progetto DESTINY, nato dall’incontro tra l’artista multidisciplinare genovese, ma di base a New York, Arianna Carossa e lo scienziato Germano Cecere, a capo del Laboratorio sui Meccanismi dell’Eredità Epigenetica all’Institut Pasteur di Parigi. L’iniziativa, che vede il sostegno anche di Villa Montallegro, esplora i confini tra destino e libero arbitrio utilizzando il linguaggio dell’arte, messo in diretto dialogo con la ricerca scientifica d’avanguardia.
Arte e scienza nei corridoi del Pasteur
L’epigenetica è quella branca della biologia che studia come l’ambiente e le esperienze individuali possano modificare l’espressione dei geni senza alterare la sequenza del DNA. In parole semplici, dimostra come fattori quali la dieta, lo stress o le abitudini possano attivare o disattivare certi interruttori genetici, e come queste “memorie” possano essere trasmesse alle generazioni successive.
Presentato lo scorso ottobre, durante la settimana di Art Basel a Parigi, il progetto ha visto Arianna Carossa lavorare a stretto contatto con l’équipe del professor Cecere. Il culmine di questa collaborazione si è avuto il 20 e 21 settembre, in occasione delle Giornate del Patrimonio di Francia, quando il progetto si è aperto al pubblico. Non solo le opere hanno trovato spazio nei laboratori, ma si sono integrate anche in alcuni ambienti del Museo Pasteur.
L’esperienza per i visitatori è stata unica, strutturata dalle curatrici Rossella Farinotti e Jamie Kulhanek in tour guidati per gruppi di 15 persone, condotti attraverso i laboratori per scoprire le 14 opere create da Carossa: sculture, due grandi installazioni e due quadri, disseminate tra gli spazi di lavoro degli scienziati. Un’operazione complessa, che ha richiesto di creare opere “site-specific” capaci di essere potenti senza interferire con la delicata attività di ricerca.
Le prossime tappe: da Genova a New York
Dopo la conclusione dell’esposizione parigina, il progetto si prepara a un tour internazionale. A marzo 2026, Arianna Carossa sarà in residenza all‘Istituto Italiano di Cultura a Parigi, dove creerà nuove installazioni che confluiranno in una successiva mostra. Il progetto approderà poi a New York, negli spazi della prestigiosa Casa Italiana Zerilli-Marimò della New York University.
Anche Genova avrà un ruolo centrale. L’11 dicembre si terrà un incontro di presentazione negli spazi di Fideuram San Paolo in via Ceccardi. Inoltre, un’installazione del progetto arriverà anche a Montallegro, consolidando il legame tra l’iniziativa e la città.
Intervista ad Arianna Carossa
– Il progetto nasce da un tema scientifico, l’epigenetica, ma solleva una questione profondamente filosofica: quanto siamo davvero liberi?
«L’idea è nata proprio da una conversazione con Cecere. Quando mi ha spiegato che l’epigenetica studia l’ereditarietà attraverso le esperienze, e che quindi la prole eredita anche i traumi o le fortune dei genitori, l’ho trovato quasi drammatico. Mi sono chiesta quanto spazio di libertà ci resti davvero. Tra il DNA, l’epigenetica e le sovrastrutture sociali, mi sembrava di vedere un “pattern”, uno schema che si ripete. Le mie opere non sono una rappresentazione della loro ricerca, ma nascono da questo mio sentire».
– Alla fine di questo percorso, si è data una risposta su quanto spazio di manovra abbiamo?
«Certo che no. La questione riguarda la relazione personale che ognuno ha con la libertà. Dipende molto da quanto le “gabbie” che ci creiamo ci rassicurano. Io, nonostante mi ritenga una persona piuttosto libera, penso che tutti noi preferiamo restare in gabbie conosciute piuttosto che uscirne. Credo che gli spazi di manovra siano piccolissimi, ma nel nostro piccolo qualcosa si può fare. Esistono strumenti per essere più spontanei: per me uno è l’arte, un altro è la meditazione, un terzo è la terapia. Ciò che ci imprigiona in questi schemi è la nostra mente, un pensiero continuo che viene tramandato. Ci si può smarcare solo un poco, attraverso delle pratiche consapevoli».
– Com’è stato lavorare a così stretto contatto con gli scienziati? Ha trovato punti in comune con il mondo dell’arte?
«Assolutamente. Loro sono ossessivi come gli artisti, nel senso che non vedono nient’altro al di fuori della loro ricerca. E l’ossessione è una maniera per scendere in profondità. Detto questo, ho notato che i nostri percorsi sono opposti. Loro partono dal dettaglio, dall’analisi di un particolare invisibile per arrivare a una comprensione del “macro”. L’artista fa il percorso inverso: parte dal “macro” per arrivare al “micro”. Le strade sono diverse, ma come due rette parallele, esiste un punto nell’universo in cui si incontrano. Il modo in cui conducono la ricerca è molto simile al nostro: è un salto nel vuoto. Non sanno cosa troveranno, ma sperano di trovarlo, anche se non sanno cosa sia. È lo stesso per un artista».