Sono talmente belli, talmente caldi (e non solo per la temperatura esterna di questi giorni), questi “Mercoledì (e non solo) della cultura” che ci aiutano a raccontare anche altre storie, storie umane bellissime, storie di amicizia, storie di vita.
E se qualche settimana fa parlare di “Fondamenta 2” era stata l’occasione anche per ricordare Gian Mazzarello e le mille giornate passate insieme a lui e la sua voglia di gioco, di scherzi, di vita, sempre, oggi voglio ricordare Mario Bottaro che di “Montallegro Magazine” è stato cuore e anima. E un po’ anche dei “Mercoledì (e non solo) della cultura”, dove c’era anche quando non c’era.

Ricordo una serata di fine estate a Gavi a casa di Francesco Berti Riboli con lui e Giorgio De Sario a scambiarci spunti e idee e la cosa bellissima era che, essendo legati da una forte amicizia tutti e quattro, discutevamo anche animatamente dalle idee che uscivano dal nostro “brainstorming”, intendendo con questa espressione abbondanti bevute di splendidi “Filari di Timorasso” o di “Anarchia Costituzionale”, dove la gradazione alcolica era più alta di quella giuridica.
Insomma, ci dicevamo anche di non essere d’accordo su qualcosa. E questo credo significhi, sempre, vera amicizia.
Insomma, per ricordare Mario credo che non possa esserci cosa migliore che raccontare sempre i “Mercoledì (e non solo) della cultura”, mai così vivi come negli ultimi due mesi, con una gemmazione continua di eventi.

A partire dalla mostra di Palazzo Ducale protagonista dell’ultimo “Mercoledì (e non solo) della cultura” che presenta l’opera di Giuseppe Cominetti, in una trilogia con Wolfsoniana e Accademia Ligustica, un po’ come accadde lo scorso anno con Raimondo Sirotti in un’altra splendida trilogia in cui il terzo lato del triangolo quella volta era Villa Croce.
Insomma, quando c’è dietro un progetto, come questo di Matteo Fochessati, a mio parere il miglior curatore alle nostre latitudini, si sente. Si sente tanto.

Questa di Cominetti al Ducale, personalmente è una delle mostre che ho amato di più e non solo perché con questo “Mercoledì della cultura” di Villa Montallegro ci è capitata la stessa guida di Man Ray di un paio di settimane fa, che è un valore aggiunto assoluto, la professoressa che tutti sogneremmo. Capace di abbinare un’assoluta serietà filologica e scientifica alla capacità di buttare lì aneddoti con un sorriso. E così ci siamo immersi in un artista che io personalmente non conoscevo, da perfetto ignorante nel senso letterale della parola, e che però ho subito amato.

Perché, vedete, Cominetti – se fosse musica – sarebbe Daniele Silvestri, ma anche Achille Lauro, ma anche Madame – cioè tutti artisti che amo moltissimo anche e soprattutto per la capacità di non fossilizzarsi su un unico stile, ma di viaggiare anche su registri antitetici. E così si parte con i ritratti che sono firmati con il cognome prima del nome, che è un errore di quelli che ti segnano giustamente almeno in rosso se non in blu a scuola, ma che nel suo caso era uno sberleffo a dotti, critici e sapienti.
E poi, sempre a proposito di firma, la splendida C allungata, che accompagna ogni quadro, insieme al resto dell’ottima calligrafia, che è quasi un logo di design decine di anni prima che esistessero i loghi di design, una griffe artistica straordinaria che, giustamente, i curatori di Palazzo Ducale mettono anche sui pannelli che introducono alle sale.

E poi, davvero, ho amato moltissimo di questa mostra – la migliore al Ducale da anni a mio parere, poi certo basta salire un piano e ci si imbatte anche nei cinque minuti con Van Gogh e il suo “Paesaggio con covoni e luna nascente” e la lettura di Igor Chierici, che sono la seconda parte dei cinque minuti con Monet – perché ci sono alcuni quadri straordinari.
Penso in particolare ai due che occupano un’intera parete in un trionfo di colori che rappresentano vele in mare, quasi un anticipo dell’Ocean Race, e la giocatrice di volano che normalmente è esposta proprio alla Wolfsoniana di Nervi, che sono gioia per gli occhi e per la mente.

E penso al tocco che mostra l’uso del colore per creare movimento, che poi è l’abc del futurismo, con il dibattito sul fatto se Cominetti fosse o no futurista con chi fra i colleghi lo accettava e invece chi non lo voleva, non riconoscendolo come futurista doc. Sinceramente, a me davvero il movimento che quasi esce dalle cornici sembra assolutamente futurista, ma vado oltre: ciò che dipinge Cominetti col suo tocco fatto di centinaia di piccole linee di colore che poi diventano immagine è qualcosa che mi riempie occhi e cuore.

E, ribadisco per la terza volta, ma sono disposto a ripeterlo fino a settanta volte sette, mi sono letteralmente innamorato di questo artista (oltre che della guida, ma vabbè). Soprattutto mi piace perché – che si tratti del fuoco che quasi esce dal quadro ogni volta che tocca il suo rosso o della Parigi della Belle Epoque, Cominetti ha la straordinaria capacità di farti sentire all’interno di questa situazione. Anche se siamo in un altro secolo, anche se siamo in un altro Paese, anche se parliamo “solo” di quadri.
Insomma, siamo davvero nella patria del divisionismo, ma che è una patria ideale, filosofica, emozionale.

E tutto questo funziona perfettamente anche nella scelta dei soggetti: il lavoro dei contadini, le portatrici di ceste che finiscono in una festa di colori che sembrano quasi le donne di colore che attraversano spesso le nostre città mediterranee ed hanno sorrisi bellissimi e riconciliano con la vita.

Poi, c’è tanto altro: il simbolismo, il quadro del matrimonio che sembra Munch, il cagnolino che potrebbe essere anche un teschio o una zucca e sembra di entrare direttamente in un capolavoro di Tim Burton, la guerra talmente carica di colori forti e di lingue di fuoco che sembra esploderti mentre guardi i quadri, ed è il miglior complimento che potrei fare.
Ma, se possibile, se esistesse il concetto grammaticale di superlativo di superlativo, sarebbero le sale che mostrano le opere di Parigi: il Carnevale a Parigi, il “Tango” che ha la stessa velocità e lo stesso dinamismo di Tananai, il movimento con le gambe delle ballerine che ballano il cancan, Montmartre, il Moulin Rouge.

E, ancora, la spiaggia di Viareggio, la Marina, quadri pieni di luce, le corse di cavalli all’ippodromo, la ragazza che salta la corda, la fontana di villa Borghese a Roma…
Cambiando l’ordine di Paesi e città, il risultato non cambia. Ed è una proprietà transitiva sì, ma della bellezza.

Scritto da:

Massimiliano Lussana

Massimiliano Lussana, 49 anni, giornalista, si definisce “affamato e curioso di vita”.