Giuseppe Canavese e Stefano Spinaci, specialisti in chirurgia senologica, con particolare attenzione agli aspetti oncologici di questo ambito, si confrontano per la rubrica “Generazioni in sala” sui temi più significativi della propria professione, ma anche sul proprio vissuto privato e sulle motivazioni che li hanno spinti a diventare chirurghi, scegliendo in particolare questa specifica disciplina che unisce chirurgia e oncologia.

– Quale professione voleva fare da bambino?

Canavese «Ho sempre amato molto gli animali e la natura. Sono stato per moltissimi anni negli “scout”. Da piccolo il mio desiderio era diventare un veterinario».

Spinaci «Ho sempre un po’ goduto di libera fantasia da bambino; quindi non aspiravo a ruoli particolarmente “quotidiani”, ma speravo in figure avventurose come pilota (auto e aerei) o esploratore».

– Quando si è iscritto a Medicina aveva già un progetto professionale?

Canavese «Dal momento in cui mi sono iscritto a Medicina il mio obiettivo era diventare chirurgo. Mi avrebbe consentito di avere una migliore percezione di quello che sarebbe successo in relazione a un mio gesto o comunque l’idea che le conseguenze di un mio atto sarebbero state più certe o comunque più controllabili rispetto alla somministrazione di una qualsivoglia terapia medica».

Spinaci «Sì, il desiderio era chiaramente chirurgico, anche se non avessi ancora ben chiaro in quale ambito specialistico».

Come ha scelto la sua specializzazione e perché? C’è stato un suo maestro, oppure un episodio, che ha influito su questa scelta?

Canavese «Ci sono stati diversi maestri che mi hanno seguito e introdotto non solo nel tipo di specializzazione di cui da tanti anni mi occupo, ma anche e soprattutto nel modo di viverla ed affrontarla. Il prof. Badellino e il prof. Calderini, quando ho iniziato all’Istituto dei Tumori di Torino, per come preparare l’intervento (anche sulle tavole anatomiche), l’attenzione e la meticolosità nei movimenti e la perfetta conoscenza dell’anatomia. Il prof. Brandone dell’Istituto Tumori “Paoli Calmette” di Marsiglia, dove ho lavorato come chirurgo interno straniero e il dott. Karakousis del Roswell Park Memorial Institute di Buffalo (NY), che ho frequentato per alcuni mesi, per il dinamismo e l’attenzione estrema all’anatomia in ogni tipo di intervento chirurgico».

Spinaci «Credo che poche persone possano considerarsi così ben influenzate nella scelta professionale quanto me. Il Corso di Laurea in Medicina ha una durata di 6 anni e il momento di scegliere la tesi arriva al quinto. Ero ormai deciso di dedicarmi alla chirurgia plastica ma, per una serie di eventi, totalmente casuali (a oggi mi permetto di dire fortunati), mi ritrovai in sala operatoria ad aiutare il dott. Giuseppe Canavese e tutta la sua equipe: da lì a davvero molto poco tempo, compresi quale fosse la mia strada».

– Cosa pensa di aver insegnato in questi anni di professione?

Canavese «Quello che ho imparato: rispetto per la paziente che deve spesso affrontare un percorso difficile. Un atteggiamento mai negativo sui risultati che si possono conseguire con le diverse terapie. Un aggiornamento costante sulle procedure chirurgiche e una scelta multidisciplinare nei programmi terapeutici».

– Cosa trova di positivo nel confrontarsi con colleghi, in particolare se più giovani?

Canavese «Tenere sveglia la mente».

– Quali sono le persone che le hanno dato di più in termini di esperienza trasmessa?

Spinaci «Sono talmente numerose, in senso positivo e anche negativo (negativo non vuole dire comunque non formativo!!!) che faticherei a contarle».

– Cosa è riuscito a “carpire “da persone di maggior esperienza?

Spinaci «La tecnica chirurgica, il metodo di studio scientifico e dell’approfondimento clinico di ogni singolo paziente e anche della forma comportamentale necessaria per sostenere un paziente.
L’importante è acquisire l’esperienza ed elaborarla per produrne una propria, evitando il rischio di cadere nell’imitazione, perdendo così, qualità, evoluzione e personalità».

– Cosa caratterizzava la sua specialità (diagnostica per immagini per inquadramento patologia, tecnologia chirurgica) quando ha iniziato?

Canavese «L’approccio clinico (ispezione, palpazione, anamnesi) e la tecnica chirurgica molto invasiva. La diagnostica per immagini era poca cosa».

– Come è cambiata la sua professione da quando lei ha iniziato la sua attività?

Canavese «Il concetto di radicalità oncologica – che una volta si pensava di ottenere soltanto con una chirurgia estremamente demolitiva – e l’impiego di una tecnologia sempre più sofisticata che per i giovani non deve però sostituire la clinica con la c maiuscola».

– Come è cambiata la sua professione da quando lei studiava all’università?

Spinaci «Non troppo sostanziale, ma la facile acquisizione di informazioni, spesso mal riportate o non adeguatamente spiegate, attraverso social e similari, genera, seppur molto di rado, alcune insicurezze su alcune fasi del percorso di cura».

La scheda di Giuseppe Canavese
La scheda di Stefano Spinaci

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Redazione