Il progresso tecnologico, lo sviluppo di materiali sempre più performanti e l’affinamento delle tecniche chirurgiche hanno ridisegnato i confini della traumatologia moderna. Oggi, di fronte a una frattura articolare complessa, il chirurgo si trova spesso a operare in una “zona di confine” dove la scelta tra riparare il danno o sostituire l’articolazione non è scontata. Questo tema cruciale è stato al centro del Congresso Regionale della ALIOTO (Associazione Ligure Ortopedici Traumatologi Ospedalieri) che ha visto confrontarsi i massimi esperti del settore.

Per approfondire l’argomento abbiamo intervistato Alessandro Zaino, dirigente medico presso l’Ospedale Evangelico Internazionale di Genova e responsabile scientifico dell’evento, che abbiamo incontrato in Montallegro, sede che ha scelto per la sua attività in libera professione.

– Quali novità sono emerse dal confronto?
«Non esiste un confine rigido, ma una valutazione specifica per ciascun paziente. Tuttavia, il principio cardine della nostra disciplina resta invariato: la priorità è la ricostruzione biologica. La sintesi, ovvero il ripristino dell’anatomia originale tramite placche e viti, rimane la prima scelta laddove possibile. Quando però la situazione clinica, la qualità dell’osso o la complessità della frattura non garantiscono un risultato ottimale, la protesi diventa l’opzione più efficace e sicura».

– In passato la protesi era una soluzione destinata quasi esclusivamente ai pazienti anziani. Con le nuove tecnologie, l’età anagrafica è ancora un fattore determinante?
«L’età anagrafica ha perso il suo valore assoluto a favore dell’età biologica e delle richieste funzionali del paziente. Grazie ai nuovi materiali, la protesica è oggi percorribile in contesti un tempo impensabili. Tuttavia, la biologia detta ancora le regole: se il tessuto osseo lo consente, la strada maestra è salvare l’articolazione naturale. La sostituzione protesica interviene quando la ricostruzione non offre garanzie di stabilità o durata nel tempo».

– A livello di recupero post-operatorio, come si differenziano i due approcci?
«È qui che la protesica offre un vantaggio sostanziale: la rapidità. Scegliendo la sostituzione articolare si eliminano i tempi biologici di guarigione dell’osso necessari nella sintesi. La protesi permette una ripresa funzionale quasi immediata: per esempio, con una protesi monocompartimentale di ginocchio il paziente è in grado di camminare il giorno successivo all’intervento. Al contrario, la sintesi richiede una fisioterapia iniziale più cauta e un carico progressivo per non compromettere il processo di consolidamento osseo».

– Questa rapidità di recupero consente anche un ritorno all’attività sportiva ad alto impatto?
«Tecnicamente è possibile, ma clinicamente serve prudenza. Sebbene la tecnologia moderna e la stabilità degli impianti permettano gesti atletici complessi, come chirurgo sconsiglio il ritorno a sport ad alto impatto su una protesi d’anca o di ginocchio. Il paziente può sentirsi in grado di farlo, ma l’usura meccanica accelerata rischia di compromettere la longevità dell’impianto. L’obiettivo è garantire la qualità di vita il più a lungo possibile».

– Analizzando i diversi distretti corporei, ci sono aree in cui la protesi è ormai la scelta dominante?
«Ogni distretto ha le sue specificità biomeccaniche. Nell’anca, per esempio, la soluzione protesica è spesso preferibile alla sintesi nelle fratture complesse, garantendo risultati eccellenti. Nel ginocchio, viceversa, la protesi su frattura acuta resta un evento raro: in questo distretto la tendenza è fortemente conservativa. In sintesi, mentre l’anca si presta maggiormente alla sostituzione immediata, per il ginocchio e altri distretti la priorità assoluta resta preservare l’osso nativo».