In quattro edizioni – e qualche anno in più, perché ci si è messa di mezzo la pandemia – la Genova BeDesign Week è diventata un appuntamento imperdibile, qualcosa che per cinque giorni fa respirare a Genova un clima “milanese”, con tutti i significati che questa parola sa avere. Ne ha persino di positivi (scherzo, a scanso di equivoci). Camminare per via Giustiniani, via San Bernardo, arrivare a Santa Maria di Castello, a Sarzano e a San Lorenzo e imbattersi in un centro storico che vive e splende, dove ogni portone e ogni vetrina riservano sorprese architettoniche e di design è qualcosa che riempie il cuore e la vista, l’anima e le viscere. Sì, anche le viscere, perché ti ribolle un po’ il sangue vedendo quel che queste strade potrebbero essere 365 giorni all’anno, 366 nei bisestili, e non sempre sono.

Insomma, la fatina buona di tutto questo, metà Maga Magò, metà Amelia la fattucchiera, è Betta Rossetti, colei che più di tutti ha creduto nel DiDe, il distretto del design e che – ora possiamo dirlo – ha stravinto la sua scommessa. Che sembrava una follia. E indubitabilmente lo era, ma follia rigorosamente erasmiana. Innanzitutto, perché Elisabetta Rossetti è lei stesso design vivente: con i suoi abbinamenti di colori, con il suo sorriso contagioso, con la sua forza di prenderti per sfinimento coinvolgendoti in questo progetto. E ha ragione lei, ha assolutamente ragione lei. La dimostrazione, la prova del nove, la certificazione definitiva che tutto ciò che ho scritto fin qui è assolutamente vero?

Il “mercoledì (e non solo) della cultura” di Villa Montallegro che si è trasferito all’interno della BeDesign Week.
Stavolta era davvero mercoledì e l’incontro di cui siamo stati protagonisti in via San Bernardo 19, una delle nuove sedi “illuminate” dall’edizione 2023 della manifestazione sul design – e mai metafora fu più adatta, visto che il titolo di quest’anno è “Scintille di design” e l’energia è il tema conduttore che lega tutte le centinaia di installazioni ed eventi della manifestazione – è stato uno dei più interessanti e “sani” (e anche in questo caso la parola non è usata a caso) che mi sia mai capitato di moderare.
Diceva tutto già il titolo: “Design e salute: umanizzare luoghi e strumenti di cura”. E anche il sottotitolo non scherzava: “Il design, inteso come elemento fondamentale nella creazione di ambienti e strumenti che favoriscono la cura e il benessere delle persone”.

“Vaste programme”, avrebbe detto il generale De Gaulle. E confesso che, quando sono stato coinvolto, sono stato immediatamente affascinato dal tema, ma anche un po’ impaurito dal fatto che fosse in qualche modo percepito troppo “alto”: di fronte alla malattia e soprattutto ad alcune malattie, preoccuparsi del design non rischia di essere eccessivo? Invece, tutto il mio scetticismo è stato spazzato via dal pubblico che ha affollato il palazzo, tanto che è stato necessario tre volte aggiungere sedie – di design ça va sans dire – per provare a fare sedere coloro che erano in piedi ai lati della corte del palazzo.
E qui arriva il “Betta Rossetti in doppio petto”, il secondo folle erasmiano di questa storia, Francesco Berti Riboli che è uno dei sostenitori da sempre di questa Genova BeDesign Week, ma soprattutto è uno che crede moltissimo in questo concetto di umanizzazione dei luoghi di cura (anche) con il design e che lo declina ogni giorno a Villa Montallegro.

Insieme a loro ho trovato un’ottima squadra: Niccolò Casiddu, direttore del Dipartimento di Architettura e design, Mario Ivan Zignego e Silvia Pericu, professori allo stesso Dipartimento dell’Università degli Studi di Genova, che hanno detto tante cose, mostrato la possibilità per il design di interagire con il concetto di salute, ma soprattutto hanno usato tre parole che a me – e mi è parso guardando il pubblico davanti a noi anche a chi ascoltava – piacciono moltissimo. Le parole sono “Persone”, “Umanesimo” e soprattutto “Bellezza”, che magari non salverà il mondo come dice il principe Miskin di Dostoevskij, ma potrebbe salvare qualche paziente. E sarebbe già moltissimo.

E poi Davide D’Aprile, uomo marketing di BBraun ci ha fatto vedere come “design” e “Germania” non sempre siano ossimori e come strumenti apparentemente – e non solo apparentemente, trattandosi di sale operatorie – asettici, come bisturi e dintorni, possano essere belli. Insomma, non tutti i tedeschi vanno in giro con calzini corti bianchi e sandali infradito.
Andiamo avanti: perché Matteo Cresti e Giampaolo Bonaldi, uomini di Esaote, ci hanno raccontato di come ci siano macchine diagnostiche, per risonanze e esami molto delicati, anche e soprattutto psicologicamente per i pazienti, in cui l’«effetto claustrofobia» si somma alla preoccupazione e a volte anche alla paura insita in questo tipo di esami.
Ecco, anche a questo serve il design, a fare stare meglio chi deve fare un esame delicato, ad ascoltare le sue paure, ad aiutare l’approccio. E l’esempio dei mattoncini “Lego” che circondano gli strumenti per i bambini ha fatto capire benissimo il concetto persino a me.

Mica finita. Perché Massimiliano Marchica, di CoeLux, ci ha raccontato di come la luce sia importante nei luoghi della salute e di come creando un “cielo” sopra le teste dei pazienti sia possibile svoltare nell’approccio alle visite e ai reparti, con un azzurro chiaro, ma caldo, che ci ha accompagnato attraverso fotografie talmente belle che sembravano rendering. E invece erano vere.
Infine, ciliegina sulla torta, Andrea Puppo, direttore della Struttura complessa di Ginecologia e Ostetricia dell’ospedale Santa Croce e Carle di Cuneo, che ha ribaltato il punto di vista o, meglio, l’ha completato, raccontandoci la stessa storia, ma vista dal punto di vista dei medici, alle prese con problemi di spazio e di norme, magari giuste, che in qualche modo interferiscono pesantemente col lavoro del medico. Se un corrimano in corridoio contribuisce a rendere problematico il lavoro di chi è in corsia, evidentemente la declinazione dell’ospedale novecentesco non è quella giusta.

E devo ringraziare tutti loro, tutti coloro che ho citato e anche tutto il pubblico – che vedevo interessato, a tratti quasi avvinto da queste storie – perché hanno usato anche un linguaggio “bello”: tecnico, ma non specialistico; serissimo, ma non paludato; scientifico, ma non incomprensibile.
Perché la Bellezza è anche quella dell’uso delle parole. E in questo strano e fascinoso “Mercoledì della cultura”, così diverso da tutti gli altri, di Bellezza ne abbiamo incontrata davvero tanta.

Scritto da:

Massimiliano Lussana

Massimiliano Lussana, 49 anni, giornalista, si definisce “affamato e curioso di vita”.