La celiachia è una condizione autoimmune cronica scatenata dall’ingestione di glutine in soggetti geneticamente predisposti. Negli ultimi anni, la consapevolezza e le diagnosi sono aumentate significativamente, portando a una maggiore attenzione verso le esigenze di chi ne soffre. Per approfondire questo tema, abbiamo incontrato l’attrice Carola Clavarino che convive con la celiachia fin dall’infanzia e ha condiviso con noi la sua esperienza, offrendo spunti preziosi su diagnosi, gestione quotidiana e sull’evoluzione della percezione di questa patologia.

– Quando ha scoperto di essere celiaca?
«Nella primissima infanzia. Questa patologia, infatti, mi è stata diagnosticata attorno ai 4-5 anni. I sintomi sono soggettivi. Nel mio caso, un’ingestione accidentale può provocare vomito, nausea, cefalea e offuscamento della vista, con intensità variabile. Essere celiaci significa doversi limitare a tavola, perché l’unica terapia consiste nell’eliminazione totale del glutine dalla dieta. È importante anche considerare la possibile correlazione con altre patologie autoimmuni, come il diabete, di cui soffrono molti miei conoscenti celiaci».

– Quali sono state le rinunce più significative e come è cambiata la gestione della celiachia negli anni?
«Se parliamo di rinunce, le più sofferte per me sono state quelle legate a piaceri quotidiani come la brioche al bar, il cornetto gelato e la birra. Tuttavia, la situazione è drasticamente migliorata. L’aumento del numero di diagnosi di celiachia e di sensibilità al glutine ha portato a un’evoluzione del mercato dedicato, con un’ampia disponibilità di prodotti senza glutine. Lo Stato riconosce l’impegno economico che questa condizione comporta, erogando un contributo mensile per l’acquisto di questi prodotti, il cui costo è significativamente più elevato».

– Il suo percorso diagnostico risale agli anni Ottanta. Come si giungeva alla diagnosi di celiachia allora e quali erano le maggiori difficoltà rispetto a oggi?
«All’epoca, la diagnosi fu un processo lungo e complesso per la mia famiglia, durato circa due anni. La patologia era meno conosciuta e gli strumenti diagnostici meno raffinati. Oggi, esami del sangue specifici possono rapidamente indicare la predisposizione genetica e la presenza di anticorpi. Allora si procedeva per esclusione; ricordo un periodo in cui mi furono tolti i latticini. La conferma arrivò con una gastroscopia, eseguita da sveglia, un’esperienza che oggi, fortunatamente, viene spesso gestita con sedazione, come avviene presso strutture qualificate come Montallegro. Comunicare le restrizioni a una bambina di cinque anni era arduo e la consapevolezza generale, anche nella ristorazione, era quasi nulla. La mancanza di attenzione alla contaminazione incrociata comportava per me un costante malessere e difficoltà di crescita».

– Quali consigli si sente di dare per affrontare al meglio questa condizione?
«La diagnosi, specialmente se tardiva, può rappresentare una sfida psicologica notevole. Tuttavia, è importante focalizzarsi sugli aspetti positivi: l’eliminazione del glutine porta a un netto miglioramento della sintomatologia e della qualità di vita, il che è di per sé un grande sollievo. E, come già detto, l’offerta di prodotti senza glutine è vastissima e permette di ridurre al minimo le rinunce».

– La socialità, come cenare fuori, può rappresentare una sfida. Esistono oggi risorse e accorgimenti per i celiaci che desiderano mangiare al ristorante in sicurezza?
«Esistono associazioni dedicate, come quella che fornì un supporto cruciale a mia madre negli anni Ottanta, che certificano i ristoranti che seguono protocolli rigorosi per evitare la contaminazione. Applicazioni e community online sono altrettanto utili per individuare locali idonei. Per chi ha una reattività molto elevata al glutine, è consigliabile frequentare esclusivamente esercizi con garanzie di assenza totale di contaminazione. Molti ristoranti oggi offrono opzioni senza glutine, ma è sempre bene informarsi accuratamente sulle procedure adottate in cucina».

– Dalla sua prospettiva, ha notato un reale aumento della celiachia e delle sensibilità al glutine nella popolazione?
«Sì, l’aumento è evidente. Riscontro un numero molto più elevato di persone diagnosticate celiache rispetto al passato, quando ero spesso l’unica in molti contesti. Anche la sensibilità al glutine non celiaca è più diffusa, con molte persone che scelgono di eliminare il glutine dalla dieta per un miglior benessere generale».

– Quale consiglio può dare a chi sospetta di essere celiaco?
«Il primo passo è rivolgersi al proprio medico di base, che potrà indirizzare a un gastroenterologo. È fondamentale che gli esami del sangue specifici vengano eseguiti mentre si continua ad assumere glutine. Interrompere l’assunzione di glutine prima dei test può portare a falsi negativi, poiché i villi intestinali, danneggiati dalla reazione autoimmune, avrebbero il tempo di rigenerarsi. La celiachia può essere anche silente, manifestandosi con sintomi atipici, come nel caso di una mia conoscente diagnosticata dopo episodi di poliabortività. In presenza di familiarità, come nel mio caso per mia figlia, è consigliabile effettuare test genetici per la predisposizione. Una predisposizione genetica non implica certezza di malattia, ma richiede maggiore attenzione, poiché diversi fattori – come infezioni virali, stress, gravidanza – possono fungere da evento scatenante per l’attivazione della patologia».

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