L’aneurisma dell’aorta addominale è una patologia particolarmente insidiosa, perché spesso si sviluppa senza dare alcun sintomo, manifestandosi solo al momento della sua complicanza più temibile: la rottura. Si tratta di una dilatazione anomala del più grande vaso sanguigno del nostro corpo, un rischio che può essere gestito e neutralizzato grazie a una diagnosi precoce e a opzioni terapeutiche sempre più evolute e mininvasive. Per approfondire questo tema ci siamo rivolti a Giovanni Pratesi, Direttore della Clinica di Chirurgia vascolare ed endovascolare dell’IRCCS Ospedale Policlinico San Martino di Genova e della scuola di specializzazione in Chirurgia vascolare dell’Università di Genova. Lo abbiamo incontrato in Montallegro, struttura che ha scelto per la sua attività di libera professione.

– Professore, cos’è un aneurisma dell’aorta e quali sono i principali fattori di rischio?
«L’aneurisma dell’aorta è una dilatazione del più grande vaso sanguigno dell’organismo, quello che porta il sangue dal cuore alla periferia. La localizzazione più frequente è a livello dell’aorta addominale, al di sotto delle arterie renali, ma può interessare l’intera aorta. I fattori di rischio sono riconducibili a quelli della malattia aterosclerotica. Esistono fattori modificabili grazie a una maggior attenzione allo stile di vita, come il fumo di sigaretta, l’ipertensione arteriosa, la dislipidemia, la sedentarietà e il sovrappeso. Accanto a questi, individuiamo fattori non modificabili: primo fra tutti l’ereditarietà, per cui la familiarità gioca un ruolo fondamentale. Avere un parente di primo o secondo grado affetto da questa malattia aumenta il rischio (ed è importante conoscere questo dato anammestico) così come l’età».

– Esistono campanelli d’allarme a cui prestare attenzione?
«Nel 90% dei casi è totalmente asintomatico. Diventa sintomatico quando compare una complicanza, spesso la più grave, ovvero la rottura. In quel caso si manifesta con un forte dolore addominale, irradiato posteriormente. A differenza di altre patologie, come l’angina per il cuore, non esistono veri campanelli d’allarme; i sintomi premonitori sono estremamente rari. Spesso, infatti, la diagnosi avviene per caso, durante un’ecografia eseguita per un altro problema, come un controllo alla prostata».

– Come si può giungere, dunque, a una diagnosi precoce?
«L’unico modo è effettuare uno screening. L’esame di primo livello è l’eco-color Doppler dell’aorta addominale, un’ecografia semplice e non invasiva, indicata per le categorie a rischio. Le linee guida sono chiare: dopo i 60 anni, in presenza di fattori di rischio come sesso maschile, familiarità, fumo o ipertensione, è opportuno eseguire questo esame per valutare il diametro dell’aorta».

– Una volta diagnosticato un aneurisma, quando è necessario intervenire?
«A dircelo sono le linee guida. Il criterio principale è il diametro massimo dell’aorta: quando supera i 55 millimetri è indicato il trattamento, perché si è visto che oltre questa soglia il rischio di rottura aumenta in modo significativo. Altri fattori che orientano verso l’intervento sono una rapida crescita nel tempo oppure una forma irregolare, non uniforme, detta sacciforme».

– Quali sono le opzioni di trattamento oggi disponibili?
«Oggi, nella grande maggioranza dei casi con anatomia favorevole, si opta per un trattamento endovascolare mininvasivo. Dopo una valutazione con un esame di secondo livello – l’angio-TAC – l’intervento si effettua senza tagli chirurgici, utilizzando un accesso, con puntura dei vasi arteriosi all’inguine, per posizionare un’endoprotesi all’interno dell’aorta. Può essere eseguito in anestesia locale con una blanda sedazione e richiede una degenza di due o tre giorni. La chirurgia tradizionale, che prevede l’apertura dell’addome e la sostituzione del tratto di aorta malato, conserva ancora le sue indicazioni ma è più invasiva, richiede un’anestesia generale e una degenza più lunga, di quattro-sei giorni. In ogni caso, la scelta terapeutica è sempre frutto di una valutazione multidisciplinare condivisa con cardiologo, pneumologo, anestesista e altri specialisti».

– La ricerca sta facendo ulteriori passi avanti?
«Sì. Se un aneurisma misura meno di 55 millimetri non si opera, ma si monitora con ecografie periodiche. Purtroppo, a oggi, le terapie mediche non riescono a bloccarne la crescita. Il focus della ricerca è proprio questo: cercare di arrestare l’evoluzione degli aneurismi piccoli con interventi ancora meno invasivi, per evitare che raggiungano la soglia chirurgica. La ricerca si muove su più fronti: dalla biologia cellulare e la medicina di precisione fino allo sviluppo di dispositivi meccanici molto avanzati. È il nuovo orizzonte».

– Dopo l’intervento, qual è l’iter che deve seguire il paziente?
«I controlli sono fondamentali. Nel caso di un trattamento endovascolare, è opportuno eseguire follow-up periodici, prima con una TAC e poi con ecografie, per verificare che l’endoprotesi sia posizionata correttamente. Nell’intervento tradizionale, dove l’aneurisma viene rimosso fisicamente, i controlli sono meno frequenti. È comunque sempre importante non abbassare la guardia, perché chi ha sviluppato un aneurisma dell’aorta addominale presenta un rischio aumentato di svilupparne altri, per esempio alle gambe o all’aorta toracica».