Ricordo di Luciano Giuliani: l’innovatore che ridisegnò l’urologia moderna
Il professore emerito Giuseppe Martorana ripercorre la figura del suo maestro, il cui insegnamento continua a vivere nei suoi allievi e nell'evoluzione della disciplina urologica
Mi dica, dottore
L’evoluzione della medicina è segnata da figure che, con intuito, rigore e abilità, sanno imprimere svolte epocali. Luciano Giuliani (1928-1994) appartiene a questa schiera di pionieri. Professore di Urologia all’Università di Genova, fu una figura chiave nel traghettare la disciplina da un ruolo quasi ancillare rispetto alla chirurgia generale a una specialità autonoma, complessa e rispettata. Non fu solo un chirurgo eccelso, ma un innovatore capace di concepire e diffondere tecniche rivoluzionarie, nonché un maestro esigente, fondatore di una scuola che ha formato generazioni di urologi. Per comprendere appieno la statura di Giuliani, abbiamo dialogato con uno dei suoi più illustri allievi, il professor Giuseppe Martorana, Emerito di Urologia presso l’Università di Bologna, che ne custodisce viva la memoria e l’insegnamento.
– Professor Martorana, qual è stato il contesto in cui Giuliani iniziò a operare?
«Negli anni cinquanta, l’urologia era considerata una disciplina ancillare alla chirurgia generale.
I reparti urologici autonomi erano rarissimi; spesso si trattava di sezioni coordinate da un chirurgo generale con interesse urologico. Questo limitava fortemente le aspirazioni di autonomia della disciplina, che era vista prevalentemente come a vocazione endoscopica e internistica, con interventi chirurgici limitati. Basti pensare che – come ho scritto nel libro dedicato a Giuliani – all’epoca bastava aprire il peritoneo perché l’urologo si fermasse e chiamasse il chirurgo generale: un fatto che oggi fa sorridere».

Giuseppe Martorana
– Cosa determinò la svolta?
«La svolta avvenne a metà degli anni Cinquanta. Nel 1955 fu bandito il primo concorso universitario per professore ordinario di urologia, vinto da Ulrico Bracci, che divenne così il primo ordinario in Italia. L’anno dopo, a Firenze, nacque la prima clinica urologica universitaria. Bracci, provenendo dalla chirurgia generale, trasferì per osmosi le sue vaste competenze chirurgiche alla nuova disciplina. L’urologia iniziò così a sviluppare tematiche chirurgiche complesse che prima non venivano affrontate. Fu un passaggio epocale».
– Può farci un esempio di questa evoluzione promossa da Bracci e dalla sua scuola, di cui Giuliani faceva parte?
«Un esempio significativo è l’asportazione della vescica per tumore, la cistectomia. Prima, l’approccio standard era deviare le urine nel sigma (ureterosigmoidostomìa), creando una sorta di cloaca mista urina-feci che portava spesso a infezioni gravi e insufficienza renale, causando la morte del paziente ancor prima che per il tumore stesso. Con Bracci si iniziò a utilizzare l’intestino, cosa a cui l’urologo tradizionale non era avvezzo, per creare serbatoi urinari separati, come la vescica rettale, che divenne un vanto della chirurgia italiana a livello mondiale. Questo e molti altri sviluppi diedero finalmente dignità all’urologia, che iniziò a eseguire interventi persino più complessi di quelli della chirurgia generale, svincolandosi dalla sua sudditanza».
– In questo contesto, Giuliani come si distinse? C’è un intervento, una tecnica specifica che porta la sua firma e che ha fatto scuola?
«Certamente. Giuliani introdusse una tecnica rivoluzionaria per la nefrectomia radicale nei casi di tumore renale, tanto da entrare quasi in “competizione” scientifica col suo stesso maestro, Bracci. All’epoca le diagnosi erano spesso tardive e i tumori renali molto voluminosi. La tecnica tradizionale, seguita anche da Bracci, prevedeva di arrivare al rene dalla periferia, scollare il colon e raggiungere il peduncolo vascolare per ultimo, con il rischio concreto di disseminare cellule neoplastiche durante la manipolazione della massa e di causare sanguinamenti importanti. Giuliani rese popolare una tecnica, anticipata anni prima da un chirurgo americano, che lui definì “asepsi neoplastica“. L’idea era di non toccare il rene inizialmente. Si procedeva con un accesso transperitoneale mediano, si scollava il duodeno (attraverso il legamento di Treitz) e si andava direttamente a clampare (= legare e bloccare un vaso sanguigno o un altro condotto anatomico, solitamente con una pinza ovvero clamp, per interrompere il flusso o ostruire il passaggio) l’arteria renale come primo tempo chirurgico. In questo modo, il rene veniva ischemizzato subito, riducendo il rischio di disseminazione tumorale e di sanguinamento intraoperatorio. Il rene, ischemizzato, si riduceva anche di volume, rendendo più agevole la successiva mobilizzazione del colon e l’asportazione del blocco rene-tumore».
– Di che anni è questa innovazione?
«Presentò questa tecnica nel 1974 a Johannesburg, al congresso della Società Internazionale di Urologia, ottenendo un successo enorme. Da allora, chirurghi di tutto il mondo adottarono la legatura preliminare dell’arteria renale. Ricordo una discussione accesa, ma amichevole, tra Bracci e Giuliani durante un pranzo a Naxos, vicino Taormina, proprio su quale fosse l’approccio migliore. I fatti, poi, diedero ragione a Giuliani».
– Giuliani è ricordato anche come un grande maestro. Quali erano le sue doti nell’insegnamento e nel creare una scuola?
«Possedere un grande carisma è importante, ma non basta se non è supportato da sostanza. Giuliani aveva un carisma enorme. Come disse il giornalista genovese Franco Manzitti “persone come lui si distinguono per il “fermento” che riescono a generare attorno a sé”. Creava un’atmosfera di emulazione e spirito competitivo, essenziale in ambito accademico. Ma dietro questo carisma c’erano una capacità, una coerenza e un rigore straordinari, verso sé stesso prima che verso gli altri. Per lui il lavoro veniva prima di tutto, richiedeva sacrificio, coerenza e un rispetto assoluto per il malato. Non erano consigli, erano ordini categorici. Chi non seguiva queste regole era tagliato fuori».
– Come riuscì a trasmettere questi valori?
«Giuliani ebbe anche la fortuna, arrivato a Genova poco più che quarantenne, di trovare un gruppo di giovani – Carmignani, Belgrano, io stesso, Giberti, Puppo, – che credettero in lui e lo seguirono in modo quasi fideistico, disposti a sacrificarsi. Lavorare con lui non era semplice, pretendeva molto, senza discussioni. Ma proprio questo rigore, unito alla sua dedizione, creò quel forte senso di appartenenza che è alla base del concetto di “scuola”. Questi valori – sapere, saper fare e saper essere – sono stati trasmessi non solo ai suoi allievi diretti, i “figli”, ma anche ai “nipoti”, cioè agli allievi dei suoi allievi».
– Il “sapere, saper fare, saper essere” sembra un concetto centrale della sua eredità.
«Esatto. Non basta sapere, per esempio, l’anatomia chirurgica se poi non si sa operare: si è incompleti. Ma non basta neanche saper operare se poi ci si comporta in modo non etico o irresponsabile. Giuliani ci ha imposto queste linee guida: essere coerenti, responsabili, rigorosi, non tornare sui propri passi. Questo forma un professionista completo, e questa impronta è rimasta, non solo nella scuola genovese ma direi in tutta la scuola urologica che discende da Bracci e Giuliani».
Ci può raccontare qualcosa del lato umano di Giuliani? Si parla di un uomo schietto, con senso dell’umorismo, amante del mare.
«Sì, aveva quasi una doppia personalità. Al primo impatto era burbero, severo nell’aspetto e nel rapporto, incuteva timore reverenziale. Ma una volta superata quella barriera iniziale, si scopriva una persona sensibile, affettuosa e, soprattutto, incredibilmente coerente. Se fissava un obiettivo, specialmente se riguardava la valorizzazione di un giovane meritevole, lo raggiungeva a ogni costo, senza scuse o ripensamenti. Diceva le cose come stavano, non era uomo da pacche sulla spalla, ma dava tutto sé stesso per i suoi collaboratori di cui si fidava. Amava Genova e il mare: scoprì qui la passione per il surf, pur mantenendo quella per la caccia. Sapeva essere ironico e apprezzava la “battutaccia” tipica toscana».