Un importante traguardo per la sanità ligure è stato recentemente raggiunto con il primo intervento di mastectomia totale “nipple sparing” per via endoscopica, una tecnica chirurgica mini-invasiva che segna una nuova frontiera nel trattamento del carcinoma mammario. L’operazione, eseguita all’Ospedale Villa Scassi di Genova, è stata portata a termine dall’equipe del dottor Stefano Spinaci, responsabile della Senologia territoriale Asl3.

Questo approccio innovativo, realizzato con una piccola incisione in sedi poco visibili, garantisce la massima efficacia oncologica unita a un recupero più rapido e a un risultato estetico che rispetta la femminilità. Abbiamo incontrato il dottor Stefano Spinaci in Montallegro – struttura che da anni ha scelto per la propria attività in libera professione – per farci raccontare non solo questa tecnica, ma anche l’evoluzione e la filosofia che guidano il suo lavoro.

– Dottor Spinaci, lei ha eseguito la prima mastectomia endoscopica in Liguria. Ci spiega in parole semplici perché questa tecnica è così importante?
«La chirurgia endoscopica è una delle nuove metodiche mini-invasive per la mammella ed è pienamente riconosciuta per il trattamento di patologie oncologiche conclamate, garantendo una completa radicalità. Il vantaggio per la paziente è enorme: non esiste un intervento senza cicatrici, ma esiste la possibilità di renderle sempre più piccole e nascoste. Con questa tecnica, grazie a incisioni minime, si ottiene un impatto estetico molto ridotto e – non coinvolgendo le strutture muscolari in modo esteso – un più veloce recupero post-operatorio con un minor disturbo della sensibilità locale. È una metodica estremamente efficace che va riservata a un target specifico di pazienti, per le quali rappresenta la scelta migliore».

– La chirurgia del seno ha fatto passi da gigante. Oggi si parla spesso di “chirurgia gentile”: è un concetto corretto?
«Assolutamente sì ed è il frutto di una grande evoluzione sociale e culturale. Oggi diamo per scontata la prevenzione, ma le pazienti più anziane che incontravo a inizio carriera spesso non si sottoponevano a controlli per un fattore culturale, quasi di vergogna. L’educazione allo screening ha cambiato tutto, consentendo diagnosi precoci che agevolano il nostro lavoro. Dal punto di vista chirurgico, siamo partiti da interventi demolitivi che asportavano muscoli e linfonodi; oggi oltre il 75% delle procedure è di tipo conservativo, in un’ottica sempre meno invasiva e più mirata».

– Uno dei cambiamenti più grandi sembra riguardare i linfonodi ascellari. È così?
«Sì, forse la maggiore evoluzione degli ultimi anni è stata proprio la “de-escalation” nel trattamento chirurgico dei linfonodi. Per anni la loro rimozione è stata un dogma. Siamo partiti dal toglierli tutti, anche in tumori per cui poi abbiamo scoperto che non era necessario. In seguito, grazie alla scuola del professor Umberto Veronesi, siamo passati alla tecnica del linfonodo sentinella, rimuovendo gli altri solo se questo risultava malato. Oggi siamo al punto che, in casi selezionati, non si interviene nemmeno se il sentinella è positivo; studi recenti stanno addirittura valutando la possibilità di non toccare affatto il comparto linfonodale».

– Se gli ultimi dieci anni sono stati rivoluzionari, cosa dobbiamo aspettarci dal futuro?
«Quello che probabilmente mi farà andare in pensione (sorride, ndr). Verosimilmente, la “terapia del bisturi” verrà soppiantata dalla terapia genica. Comprendere il DNA della malattia permetterà di sviluppare trattamenti – oggi impensabili – in grado di “spegnere” o modificare le cellule tumorali, lasciando spazio a quelle sane».

– In un percorso così delicato, dove finisce la tecnica e dove inizia la cura della persona?
«Credo che un medico, per curare bene, debba prima di tutto rimanere sempre un medico. Non dobbiamo confondere l’empatia con l'”edulcorazione” del quadro clinico. Il paziente deve essere informato adeguatamente. Spesso, dopo un intervento mini-invasivo, le pazienti stanno così bene che mi trovo a dover essere più severo, perché dimenticano di aver subito comunque un’operazione. La nostra empatia sta nel rispettare la sofferenza emotiva, che è potentissima. Ricordo sempre alle mie pazienti: “Non le dico di stare tranquilla, perché da questo lato della scrivania siamo tutti capaci. Ma Le confermo che, tecnicamente, ho gli strumenti per risolvere il problema”. È diverso. Il nostro dovere è non confondere la delicatezza di un quadro con la sua irrisolvibilità: un quadro può essere molto delicato, ma perfettamente risolvibile».

– Questo approccio cambia con l’età della paziente? Si parla nello stesso modo a una trentenne e a una novantenne?
«Questo è il grande errore che non si deve commettere. Trattare una paziente in modo diverso solo per l’età anagrafica è sbagliato; bisogna ragionare sul suo stato biologico. Ho operato di recente una signora di 94 anni, con una lesione “coltivata” nel tempo, che però ogni mattina fa la spesa e la domenica cucina per i nipoti. A una persona che sta bene, perché impedirle di continuare a farlo? Oggi, con le moderne tecniche anestesiologiche, possiamo operare in sicurezza. Se la malattia è aggredibile e la paziente può beneficiarne, il nostro dovere è farla guarire. Anche una ricostruzione mammaria a 80 anni non è un tabù: perché una signora che ama andare al mare – e tiene alla propria immagine corporea -dovrebbe rinunciarvi? Il nostro compito è garantire la guarigione e la qualità della vita, a ogni età».