Mattia Bruzzo, specialista in Neurochirurgia spinale e Neurotraumatologia, è Direttore f.f. della S.C. Chirurgia Spinale dell’E.O. Ospedale Galliera. Forte della sua esperienza con più di 3000 interventi chirurgici all’attivo, si racconta al magazine di Montallegro, dove fa studio e opera da diversi anni.

– Quale professione voleva fare da bambino?
«Fin da bambino ho sempre voluto fare il chirurgo. Il mio piano B sarebbe stato il professore di Storia e Filosofia grazie alla passione tramandata dal mio professore per tali discipline ma fortunatamente è andato liscio il piano A».

– La sua famiglia di origine le è stata di aiuto, ha agevolato il suo impegno?
«La mia famiglia mi ha sempre sostenuto nelle scelte ricordandomi l’importanza del duro lavoro, del merito e dell’impegno».

– Quando si è iscritto a Medicina aveva già un progetto professionale?
«Vengo da una famiglia di fornai. Definirlo progetto è improprio. È stata un progetto che si è definito nel tempo, giorno dopo giorno».

– Come ha scelto la sua specializzazione e perché? C’è stato un suo maestro, oppure un episodio, che ha influito su questa scelta?
«Quando ho frequentato la corsia di Neurochirurgia è stato amore a prima vista. La scelta del ramo spinale è maturata appena entrato in scuola di specializzazione. Ho sentito l’esigenza di portare nella mia città l’eccellenza della chirurgia vertebrale e ho voluto “rubare” le tecniche e le abilità dei grandi (recandomi personalmente presso i Centri considerati di eccellenza) per farle mie e ridisegnarle sulla base della mia attività clinica e dell’evoluzione tecnologica».

– Quante volte ha rinunciato a operare un paziente e perché?
«Non ho mai rinunciato a operare nessuno per due motivi: sono molto selettivo nelle indicazioni e ho raggiunto le skill per tutti gli approcci necessari a trattare qualsiasi patologia. Nel momento in cui mi accorgessi che l’indicazione è cambiata (talvolta può succedere) concordo col paziente di sospendere la procedura ma non la definirei una rinuncia bensì la scelta migliore per garantire il benessere della persona curata».

– Ricorda un caso che ha segnato la sua attività?
«Sono molti gli episodi. Ricordo però il caso di una ragazza molto sportiva plurioperata presso altre sedi che aveva ormai perso la fiducia nei dottori e conduceva una vita di dolore e difficoltà a svolgere le attività quotidiane più semplici. Le ho proposto una procedura audace e adesso non solo ha ripreso ad allenarsi ma è diventata anche l’istruttrice di uno dei miei figli».

– A che cosa ha rinunciato per la professione o per eseguire un intervento urgente (un viaggio, un incontro, una festa, una vacanza,…)?
«Il viaggio di nozze (che sarebbe coinciso con un concorso a tempo indeterminato) e un concerto privato di Ligabue, uno dei miei cantanti preferiti, a causa di una complicanza post operatoria di una mia paziente che fortunatamente si è ripresa alla grande».

– Cosa caratterizzava la sua specialità (diagnostica per immagini per inquadramento patologia, tecnologia chirurgica) quando ha iniziato?
«La cosa che “andava di moda” quando ho iniziato era il tentativo di limitare la diagnostica per immagini per la cura del paziente, tendenza che ho sempre combattuto (e tutt’oggi ancora praticata). La clinica e l’esame neurologico sono ovviamente irrinunciabili ma nel terzo millennio è stupido limitare le potenzialità diagnostiche delle nuove tecnologie ormai facilmente reperibili (risonanze magnetiche, studi elettrofisiologici, studi funzionali)».

– Dove sarà la sua specialità fra 5/10 anni? Quali sono i trend che trasformeranno il suo lavoro e quali elementi resteranno immutati?
«La robotica sarà la routine e lavoreremo quotidianamente con il massimo supporto tecnologico possibile nell’interesse della sicurezza. Ovviamente dovrà rimanere immutata la capacità di risolvere le situazioni con la propria abilità in caso di necessità, senza troppi aiuti esterni».

– Quale sarà l’innovazione che si attende a breve nel suo lavoro e che cosa comporterà?
«Proprio la robotica. Per far sì che diventi un’abitudine tra pochi anni, serve una lunga curva di diffusione e apprendimento e la costruzione di scuole specifiche che deve avvenire adesso ed è nostra responsabilità far sì che accada».

– Pratica o ha praticato qualche sport? Quale?
«Ho praticato per molti anni karate. Da circa sei anni però mi sono innamorato del CrossFit, ossia l’unione tra pesistica, ginnastica e attività ad alta intensità metabolica».

– Ha un hobby o appartiene alla categoria di professionisti che come hobby hanno il lavoro?
«Sempre grazie al CrossFit la mia vita è drasticamente migliorata così come le performance chirurgiche. Considero pertanto questa attività un complemento indispensabile del mio lavoro.

– Cosa pensa la sua famiglia (quella che ha formato) del suo impegno?
«Senza la mia famiglia non avrei raggiunto i traguardi ottenuti. I miei figli mi danno la forza e la motivazione mentre mia moglie, collega anestesista rianimatrice, è semplicemente il mio tutto e mi sostiene e consiglia attivamente ad ogni mio passo. Siamo una squadra».

– Cosa ha consigliato ai suoi figli? Li ha spinti o intende spingerli a seguire le sue orme?
«I miei quattro figli saranno sempre liberi di scegliere in autonomia e sarò pronto, se me lo chiederanno, a dare il mio parere senza influenze particolari».

– Fino a quando pensa di lavorare?
«Finché la salute me lo permetterà e fintanto sarò sicuro di poter offrire la migliore possibilità per i miei pazienti».

© foto: Gaia Cambiaggi

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