Un restringimento silenzioso ma potenzialmente molto pericoloso. La stenosi carotidea è una patologia vascolare subdola, spesso asintomatica fino a quando non si manifesta con eventi gravi come l’ictus ischemico. Comprendere di cosa si tratta, chi sono i soggetti più a rischio e come intervenire è fondamentale per una prevenzione efficace.

Ne parliamo con il Professor Giovanni Pratesi, Direttore della U.O. Clinica Chirurgia vascolare ed endovascolare dell’IRCCS Ospedale Policlinico San Martino e Direttore della scuola di specializzazione in Chirurgia vascolare dell’Università di Genova, che abbiamo incontrato in Montallegro, struttura che ha scelto per la sua attività di libera professione.

– Cosa si intende per stenosi carotidea e perché è così pericolosa?
«La stenosi carotidea consiste in un restringimento del vaso più importante che porta il sangue al cervello e quindi espone a un rischio di ictus ischemico. Questo si verifica perché un frammento del materiale dalla placca aterosclerotica, localizzata a livello del collo, si distacca sotto il flusso sanguigno e va a occludere un piccolo vaso all’interno del cervello. La stenosi carotidea è responsabile di circa il 30% di tutti gli ictus ischemici».

– Quali sono le cause e chi sono i soggetti che dovrebbero prestare maggiore attenzione?
«La causa principale è sempre l’aterosclerosi, che fa sì che si vada a formare questa placca a livello della carotide. Questa patologia molto spesso è asintomatica. Per questo è importante fare uno screening nei soggetti a rischio, ovvero persone dopo i 60 anni, prevalentemente di sesso maschile, con fattori di rischio aterosclerotici noti: fumo, pressione alta, dislipidemia (colesterolo e trigliceridi alti). Anche il diabete è un fattore di rischio rilevante. L’identificazione precoce, tramite un semplice ecocolordoppler, è la migliore strategia per evitare le complicanze».

– Esistono dei campanelli d’allarme che non dobbiamo ignorare?
«In una percentuale minore di pazienti la stenosi può essere sintomatica e si verificano quelli che si chiamano TIA, cioè attacchi ischemici transitori, o ictus veri e propri. Il sintomo tipico del TIA legato alla carotide è la perdita della vista da un occhio, o della forza a un braccio e/o una gamba, oppure la difficoltà a parlare. Di fronte a uno qualsiasi di questi sintomi, occorre recarsi immediatamente al pronto soccorso. Come per il cuore, anche per il cervello agire in fretta è cruciale. Se un embolo occlude un vaso cerebrale, ci sono circa sei ore di tempo per intervenire e tentare di aspirarlo».

– Quando si decide di intervenire e quali sono le opzioni terapeutiche?
«Si interviene quando il grado di stenosi supera il 70% o quando le caratteristiche della placca, che appare irregolare e instabile, suggeriscono un rischio aumentato di embolia verso il cervello. L’obiettivo è sempre quello di rimuovere la placca e ripristinare il corretto flusso sanguigno. Il trattamento chirurgico tradizionale consiste nel rimuovere la placca con un piccolo taglio al collo. Questa tecnica rimane ancora oggi il gold standard nella maggior parte dei casi».

– Esistono approcci meno invasivi?
«Più recentemente si è affermata una tecnica mini-invasiva, del tutto simile all’angioplastica coronarica. Mediante il posizionamento di uno stent in anestesia locale, si va a dilatare il restringimento. Durante la procedura viene posizionato un “ombrellino” di protezione per prevenire che frammenti di placca possano raggiungere il cervello».

– Come si sceglie tra l’intervento tradizionale e la procedura mini-invasiva?
«La scelta tra chirurgia tradizionale e stent dipende fondamentalmente da fattori anatomici legati al paziente e da fattori clinici. La valutazione è sempre personalizzata, una vera e propria terapia di precisione basata sulle caratteristiche specifiche di ogni singolo paziente».